Un tempo, chi
entrava nell’Urbe dalla via Tiburtina si trovava dinanzi un’antica porta
di pietra che aveva scolpite due teste di toro. Quella esterna, rivolta
verso la campagna, era un lugubre teschio; l’altra, prospiciente la
città, raffigurava invece un animale vivo. Le due teste simboleggiavano i
viandanti che giungevano nella Città Eterna: affamati e stanchi
nell’entrarvi, rifocillati e vigorosi nel lasciarla.
Ma qual era l’aspetto di Roma all’epoca
dei Templari, e quali luoghi della città furono teatro di eventi
cruciali per la storia del leggendario Ordine? Lo si scopre nel nuovo
libro di Barbale Frale, ‘Andare per la Roma dei Templari’
(il Mulino, pp. 156, euro 12), attraverso una serie di tappe
significative. Come guida, il lettore ha alcune figure illustri: Hugues
de Payns e Jacques de Molay, il primo Maestro e l’ultimo, e fra loro san
Bernardo di Clairvaux, il grande mistico del XII secolo che fu la
colonna ideologica e spirituale del Tempio.
“E’ un viaggio di bellezza e sapienza
nella Roma del Medioevo, luogo evocativo che mostra il cadavere
dell’Urbe antica e un pensiero di ricerca”, spiega Barbara Frale, Ufficiale presso l’Archivio Segreto Vaticano, da più di vent’anni tra i migliori studiosi dei Templari.
“Arrivare a Roma era come vedere Atlantide
– rimarca la storica del Medioevo - ma anche un viaggio nella storia
dei Templari che devono dialogare con i Papi e convincerli a fare dei
frati guerrieri un Ordine religioso. Santa Croce in Gerusalemme resta la
testimonianza più importante di questi percorsi, ma c’è anche il
portico di San Giovanni in Laterano e Santa Maria all’Aventino, che
conserva ancora oggi l’atmosfera originaria. Una struttura su un colle
boscoso, come un monastero, metà fortezza e metà palazzo aristocratico.
Fino al Vaticano, dove abita il Volto della Veronica e i suoi segreti,
ma ci sono anche gli appartamenti papali dove i Templari ‘cubiculari’
erano tra i più stretti collaboratori del Pontefice. Come mostra un
celebre affresco di Giotto, ad Assisi, che racconta il sogno di
Innocenzo III. In quel dipinto, il templare e l’ospitaliere sono due
cavalieri mentre dormono a terra, accanto al letto del Papa”.
Si racconta che il perimetro di Roma somigliasse a un leone. Quattordici porte
si aprivano nel XII secolo lungo il circuito delle sue strade che sono
sempre state incroci di destini. Quanti provenivano da Sud, come il
primo Maestro dei Templari, Hugo de Payns, entravano dalla porta
Asinaria, in perfetto stato di conservazione dopo 700 anni. A fare da
scenario, una muratura resistente anche all’urto delle macchine
d’assedio. Oltre la soglia, il viandante conosceva storie e litanie, tra
il tufo scuro e la pietra sbozzata.
Il primo Maestro dei ‘Pauperes
Commilitones’ paragona il suo Ordine ai piedi, la parte più umile fra
tutte perché poggia direttamente in terra, ma proprio per questo
sostiene il peso del corpo intero. I Templari videro quella terra sconnessa,
“solcata dai carri dei mercanti e dai cortei degli imperatori”, che
rigurgitava spezzoni di colonne, esili eppure immani, epigrafi e relitti
di mondi trascorsi che continuavano a raccontare umanità e vissuti.
I guerrieri consacrati conobbero il palazzo del Laterano,
dove dimorava l’erede dei Cesari, e le strade della gente comune.
Entrarono nelle stanze del Segreto Consiglio ma anche tra i mercati,
cogliendo la voce della folla, perché – nota la studiosa - “il contatto
con il popolo era una questione vitale per la mentalità del Medioevo.
Avveniva continuamente, e la gente entrava nella corte pontificia”
attraverso il grande portico che si apriva sulla facciata del palazzo.
Lì i primi Templari portarono la ‘bozza’ dell’Ordine del Tempio,
composto da uomini vincolati da voti religiosi eppure legittimati a
versare sangue: “Un vero e proprio ‘mostro’, qualcosa che in tutta la
millenaria storia cristiana non si era mai visto”, rimarca Frale.
I Templari pregavano, combattevano,
lavoravano. L’anima della Militia Salomonica Templi era curata da
Bernardo di Clairvaux, Chiaravalle era l’altra Gerusalemme. E
l’obiettivo dei frati guerrieri era riavvicinare chierici e laici.
Godevano del privilegio ‘Omne datum optimum’, una sorta di immunità che
oltre e benefici fiscali li portava ad essere una realtà soggetta a
rispondere delle loro azioni esclusivamente al Papa.
Ma a Roma i Templari avevano
soprattutto una casa che continua a custodire segreti nella pietra:
Santa Maria all’Aventino. Nobile dimora, poi fortezza e convento dei
cluniacensi – i monaci che coltivavano in allegro miscuglio ortaggi,
fiori e frutta - fu proprio in quel luogo che il mistico Bernardo
donò la sua tunica ai fratelli della Milizia Templare. Quelle mura sono
il manifesto di una proposta di vita ‘altra’, Fatta di ferro di spade e
forza di preghiere, con l’etica templare che insegnava a seguire una
sana moderazione in ogni cosa.
Eppure quegli uomini devoti potevano
celebrare a Gerusalemme gli ‘officia ad tenebras’, poiché avevano il
permesso eccezionale di recarsi a Gerusalemme sulla tomba del Cristo nel
cuore della notte per speciali cerimonie di adorazione. Chi voleva
diventare Templare, doveva dimostrarsi capace di obbedire.
Le pietre dei Templari
hanno come radice la grande rotonda dell’Anastasis, la parte interna
della basilica che copre la tomba di Gesù, ma hanno anche il volto della
magione di San Bevignate a Perugia, nell’essenzialità di un tetto
coperto a volte costolonate come in tanti altri luoghi di preghiera
templare, dove a dominare è quello che gli storici chiamano il ‘sermo
rusticus’, un linguaggio anche artistico semplice e forte. Una tavolozza
– scriverà Scarpellini - ristretta a poche ocre e terre, al bianco a
calce, al nero vite, all’azzurrite, per cogliere l’immediatezza del
segno.
L’Ordine ha fortune immense, ma i frati
sono personalmente poverissimi, tanto che la normativa consente loro di
tenere solo quattro denari. Eppure quella casa all’Aventino,
innalzata in laterizio chiaro, fra il rosa e l’arancio, ospitò i
Templari sempre in viaggio nel Mediterraneo con il loro mantello bianco e
la croce rossa. Una norma precisa dei loro statuti proibiva infatti di
pernottare in luoghi che non fossero le case del loro Ordine.
Gerusalemme, Roma, Parigi, tre case
capitane del Tempio ed esse stesse emblema di tre fasi differenti della
sua storia, finita con il tradimento di una sola notte. Tra coloro che
frequentarono la basilica petrina tra il 1295 e il 1296 c’era anche un
uomo che non era dato vedere spesso in Occidente: Jacques de Molay,
da non molto eletto Gran Maestro dei Templari. Accompagnò nel suo
viaggio di ritorno a Roma il Papa a cui fu legato fino alla morte,
Bonifacio VIII.
Frate Molay abitò a lungo nella casa
all’Aventino. Lì, dicono le cronache, il Gran Maestro indossava un
semplice saio bianco, ma a Roma vide anche la ‘Veronica nostra’,
la misteriosa effigie della Passione del Nazareno. Tanti i rimandi a
cui invita il libro della Frale, fino a Filippo il Bello, il Re di
Francia che fece scattare il piano d’attacco contro i Templari. De Molay
gli rispose con espressioni di aperto disprezzo quando il sovrano
francese offrì segretamente al Gran Maestro la possibilità di mettersi
in salvo con la fuga, poiché non erano gli uomini del Tempio ma i
capitali dell’Ordine al centro della macchinazione regia. “Epilogo di
uno scontro annoso – chiude Barbara Frale- nel quale entravano rancori
privati del re verso l’Ordine, ancora tutti da indagare”.
Gerardo Picardo
(Adnkronos)
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