
Daniel Dennett è uno degli esponenti più brillanti della filosofia della
mente contemporanea, e "Brainstorms" (fatti salvi i meriti del
precedente "Content and Consciousness", 1969) è la sua opera più nota e
discussa. Riassumere il contenuto, o dare un identikit adeguato del suo
autore risulta tutt'altro che facile. Dennett è in effetti un filosofo
multiforme e inquieto, sollecitato da obiettivi diversi e non
agevolmente conciliabili. Molte delle battaglie condotte nei saggi che
compongono il libro sono assai valide e importanti. In pagine
particolarmente apprezzate dagli specialisti egli critica a fondo
Skinner, mostrando non solo l'intima debolezza del neocomportamentismo,
ma addirittura il cripto-mentalismo che lo pervade. Nell'ambito del
cosiddetto 'mind-body problem' (il problema del rapporto tra mente e
corpo) Dennett respinge poi radicalmente le teorie che vorrebbero
identificare i fenomeni mentali con stati o eventi neurocerebrali:
troppi, in effetti, i paradossi e gli enigmi che ne derivano. Contro
comportamentisti e identitisti l'autore di "Brainstorms" propone con
forza quella che si potrebbe chiamare la riabilitazione del mentale. Non
già, si badi, che il suo proposito sia di ripristinare una qualsiasi
forma di dualismo mente-corpo. Bisogna tuttavia prendere atto che
l'universo delle credenze, delle intenzioni, delle consapevolezze è
qualcosa da cui certe indagini non possono prescindere.
Che fare, allora? La proposta di Dennett potrebbe essere espressa
così. Si tratta di rilanciare il mondo interno-mentale: e, insieme, di
interpretarlo in termini non ontologici ma funzionali (non che cosa un
ente mentale è, ma come le varie funzioni mentali operano), i quali
rientrino tutti in un ambito strettamente empirico-cognitivo, governato
da alcune regole razionali generali (connessioni causa-effetto,
sequenzialità relativamente costanti ecc.). Anzi, l'approccio che
valorizza l'esistenza di tale mondo può avere un rapporto collaborativo,
o almeno di "coesistenza" (p. i27), con gli approcci delle discipline
'hard' (la neurofisiologia, la teoria dell'informazione, la scienza dei
calcolatori).
In questa prospettiva Dennett reinterpreta l'universo mentale interno
in termini intenzionali. Tale universo è qualcosa che si coglie e si
spiega attribuendogli credenze, desideri, fini. Data la loro complessità
queste funzioni per un verso non possono (almeno per ora) essere
efficacemente ricondotte ad altro; per un altro verso, però, sono
"ricche di significato" e "funzionano": nel senso che possiamo parlarne
come se esistessero e agissero in quanto tali, consentendoci conoscenze e
previsioni attendibili. Si prenda ad esempio una credenza. Dennett non
nega che in linea di principio essa sia concepibile come il prodotto di
una determinata attività neuronale. Ma tale interpretazione appare
estremamente difficile e impraticabile sul piano pratico. Bisogna allora
permettere e accettare - senza complessi - un "atteggiamento" che ci
dica piuttosto il 'know how' che il 'know that' della credenza stessa,
rappresentandocela in termini di ragioni, bisogni e scopi. Tale
atteggiamento è chiamato appunto "intenzionale".
In realtà Dennet non rifugge dallo speculare sul modo in cui potremmo
concepire concettualmente l'organizzazione del mentale. Impiegando
un'immagine cui di solito è associato il nome di Marvin Minsky (cfr. "La
società della mente", 1986), egli considera il mentale una "società" di
funzioni-prestazioni particolari. Presa in sé e per sé, ogni singola
funzione è "stupida" e inconscia. Inserita invece in un sistema
complessivo, essa concorre a produrre qualcosa (il sistema stesso) che
non è più "stupido" e inconscio, giacché compie atti che non sono più
tali. Il primo merito di questa concezione consiste, per Dennett, nel
risolvere quello ch'egli chiama "il problema di Hume": negare un ente
"Mente" responsabile dei pensieri e delle credenze, senza per questo
postulare funzioni mentali - dei veri e propri 'homunculi' come scrive
Dennett - misteriosamente capaci di svolger esse ciò che non si vuole,
giustamente, attribuire alla "Mente". Il secondo merito della concezione
di cui sopra è, sempre secondo Dennett, di "gettare un ponte" tra
l'universo degli atti mentali-intenzionali e il campo dei processi 'latu
sensu' fisici che concorrono a costituire quegli stessi atti.
L'enfasi dennettiana sulla dimensione intenzionale del mentale è
certamente importante, ma non può essere caricata di significati che
assolutamente non ha. Dennett non solo è lontanissimo da qualsiasi
riferimento alla fenomenologia husserliana, ma il suo proposito non è di
valorizzare la specificità dell'intenzionale in quanto dimensione
peculiare del mentale o dell'umano. Si potrebbe anzi dire che per lui
non è tanto l'intenzionale a qualificare il mentale e l'umano quanto
sono questi ultimi a rientrare in un dominio più vasto: quello, appunto,
dei fenomeni intenzionali (o guardati intenzionalmente). Un sistema
intenzionale, si legge nel capitolo cruciale di "Brainstorms", può
essere indifferentemente un uomo, un alieno o una macchina (p. 46). Il
solo requisito è che il loro comportamento possa essere previsto
attribuendo ad essi credenze e desideri (p. 43). La tesi, come ben si
intende, è assai impegnativa e "costosa". Essa potrebbe in qualche
misura essere sostenibile da parte di chi, dinanzi a determinate classi
di enti, cerca solo uniformità o analogie. Diventa invece una tesi
insufficiente per chi, oltre alle analogie, intenda cogliere pure le
(eventuali) differenze. Anche ammesso che una macchina possa essere
concepita come un sistema intenzionale, resterebbe da domandarsi quali
sono (se ci sono) i caratteri che fanno delle intenzioni mentali
intenzioni non identiche a quelle delle macchine.
In verità, nonostante varie premesse e promesse, Dennett appare assai
poco interessato ad approfondire tali caratteri. Appare anzi impegnato
in una direzione per più versi opposta. In primo luogo, in una
prospettiva dichiaratamente "antropomorfizzante" (p. 46), non esita ad
attribuire tratti intenzional-mentalistici non solo agli animali ma
anche, appunto, alle macchine: "Basta fare un 'piccolo passo avanti' [il
corsivo è nostro] per chiamare le informazioni in possesso del
calcolatore le sue credenze, i suoi scopi finali e intermedi i suoi
desideri... Gli scopi di un calcolatore devono essere descritti
intenzionalmente proprio come i desideri" (p. 43). In secondo luogo, in
modo quasi simmetrico al precedente, le componenti di quel costrutto che
usiamo chiamare l'universo mentale vengono spesso presentate in modo
singolarmente 'machine like'. Qualche volta emerge anche la tendenza
(tipica di un ben preciso riduzionismo nell'ambito delle scienze umane) a
far coincidere la comprensione di determinate funzioni con la loro
decomposizione/dissoluzione in "altro": "Se vogliamo un'analisi adeguata
della creatività, dell'invenzione, dell'intelligenza, questa dev'essere
analizzata e quindi scomposta in parti tali che in nessuna di esse vi
sia intelligenza" (p. 162). Tale orientamento "dissolutore" investe
anche la stessa coscienza e l'Io. Il timore che si voglia fare di essi
degli enti metafisici porta Dennett ad assumere a loro riguardo una
posizione non meno discutibile. La coscienza, fin particolare, viene
concepita come una sorta di "scatola nera" del meccanismo-uomo; e in un
importante colloquio con Jonathan Miller (cfr. J.M.,"States of Mind",
1983) viene definita un mero agente di pubbliche relazioni. Non è da
escludere che in taluni contesti queste audaci metafore siano valide. Ma
è altrettanto certo che in altri contesti (ad esempio quelli etici)
occorrono ben altri modelli, non legati al dominio della teoria
dell'informazione e dell'intelligenza artificiale privilegiato da
Dennett.
Alla luce di tutto ciò, non sorprenderà che "Brainstorms" delinei
un'immagine del sapere psicologico per più versi unilaterale. Il compito
della psicologia, scrive Dennett, è di spiegare determinati fenomeni
"in termini che alla fine dovranno in qualche modo saldare la teoria
psicologica alla fisiologia" (p. 192). Certo "oggi non siamo ancora in
grado di descrivere in termini meccanicistici" il sistema delle credenze
ecc. (p. 124). Di qui la necessità dell'approccio intenzionale, le cui
spiegazioni vengono nettamente distinte dalle "vere e proprie
spiegazioni scientifiche" (p. 127). D'altra parte il progresso delle
indagini ci farà approdare un giorno a una completa "analisi meccanica o
fisiologica" del sistema di cui sopra.
Malgrado ogni cautela e ogni distinguo, l'"egemonia delle spiegazioni
meccanicistiche rispetto a quelle intenzionali" (p. 372) è
esplicitamente sottolineata. Anche la scelta di campo fisicalistica
nell'ambito della filosofia della mente è netta: "io desidero mantenere
il fisicalismo" (p. 73). Il prezzo pagato da Dennett per queste scelte
teoriche (che sono le principali, anche se non le sole, compiute in
"Brainstorms") è però assai alto. Si è già detto dell'interpretazione
"debole" degli atti intenzionali. La loro riconduzione a mere
organizzazioni di informazioni suggerita in vari luoghi del testo non è
convincente. Nelle credenze e nei desideri di quei sistemi intenzionali
che chiamiamo uomini noi tendiamo a cogliere qualcosa di più e di
diverso che non mere elaborazioni informazionali: qualcosa che ha a che
fare con una teoria del significato ben più complessa di quanto non
appaia a Dennet e, ancor più, con una teoria della coscienza e del
soggetto. Circa quest'ultimo punto, malgrado innegabili spunti e
aperture, tale teoria non è mai persuasivamente delineata. Del resto lo
stesso Dennett ha scritto di recente ("The Intentional Stance", 1987) di
aver sì una concezione della coscienza ma ancora 'in progress'. Non ci
resta, allora, che aspettare.
È anche per questa carenza che l'analisi dennettiana della vita
mentale assume spesso un aspetto, per così dire, "fattualistico". Anche
quando sono concepiti secondo l'atteggiamento intenzionale, credenze,
desideri ecc. appaiono soprattutto operazioni, fatti tendenzialmente
oggettivi, governati da regole standard. E se non fosse (soltanto) così?
Se credenze e desideri fossero (anche) esperienze? Esperienze rinvianti
anzitutto a investimenti simbolici, a sovradeterminazioni semantiche, a
quadri di riferimento biografico-contestuali - il tutto miscelato
secondo modi e forme soggettivi propri del "titolare" di quelle credenze
e desideri?
Tra "la" credenza e la 'mia' credenza c'è una sorta di spazio teorico
che occorre riempire. Gli accenni di Dennett alla dimensione della
"privatezza" e del "personale" sono talvolta suggestivi ma
insufficienti. Le recenti indagini sulla nozione di "punto di vista
soggettivo" e sul rapporto soggetto-contesto (un rapporto "interessato",
valutante, per il quale occorre impiegare strumenti interpretativi più
sottili di quelli neocognitivistici cari a Dennett) mettono in più sensi
in crisi gli approcci all'universo mentale prevalenti, anche se non in
esclusiva, in "Brainstorms".
Queste osservazioni non intendono in alcun modo diminuire il rilievo
complessivo di "Brainstorms". L'opera è ricca di osservazioni e di
ipotesi estremamente stimolanti che ragioni di spazio (e anche,
talvolta, di tecnicità concettuale) impediscono di lumeggiare in questa
sede. Sotto questo profilo il titolo stesso dell'opera appare
singolarmente felice. Privo di un adeguato correlato in italiano,
'brainstorm' significa qualcosa come "temporale mentale",
sommovimento/innovazione intellettuale prodotto da audaci cortocircuiti
tra idee. E indubbiamente dal 'brainstorming' scatenato da Dennett nel
cielo delle nostre certezze filosofico-psicologiche si esce forse un po'
provati, ma anche molto arricchiti.