lunedì 30 gennaio 2017

Letture del Clan Suggerite da Paolo Callari - Brainstorms di Daniell Dennet


Daniel Dennett è uno degli esponenti più brillanti della filosofia della mente contemporanea, e "Brainstorms" (fatti salvi i meriti del precedente "Content and Consciousness", 1969) è la sua opera più nota e discussa. Riassumere il contenuto, o dare un identikit adeguato del suo autore risulta tutt'altro che facile. Dennett è in effetti un filosofo multiforme e inquieto, sollecitato da obiettivi diversi e non agevolmente conciliabili. Molte delle battaglie condotte nei saggi che compongono il libro sono assai valide e importanti. In pagine particolarmente apprezzate dagli specialisti egli critica a fondo Skinner, mostrando non solo l'intima debolezza del neocomportamentismo, ma addirittura il cripto-mentalismo che lo pervade. Nell'ambito del cosiddetto 'mind-body problem' (il problema del rapporto tra mente e corpo) Dennett respinge poi radicalmente le teorie che vorrebbero identificare i fenomeni mentali con stati o eventi neurocerebrali: troppi, in effetti, i paradossi e gli enigmi che ne derivano. Contro comportamentisti e identitisti l'autore di "Brainstorms" propone con forza quella che si potrebbe chiamare la riabilitazione del mentale. Non già, si badi, che il suo proposito sia di ripristinare una qualsiasi forma di dualismo mente-corpo. Bisogna tuttavia prendere atto che l'universo delle credenze, delle intenzioni, delle consapevolezze è qualcosa da cui certe indagini non possono prescindere.
Che fare, allora? La proposta di Dennett potrebbe essere espressa così. Si tratta di rilanciare il mondo interno-mentale: e, insieme, di interpretarlo in termini non ontologici ma funzionali (non che cosa un ente mentale è, ma come le varie funzioni mentali operano), i quali rientrino tutti in un ambito strettamente empirico-cognitivo, governato da alcune regole razionali generali (connessioni causa-effetto, sequenzialità relativamente costanti ecc.). Anzi, l'approccio che valorizza l'esistenza di tale mondo può avere un rapporto collaborativo, o almeno di "coesistenza" (p. i27), con gli approcci delle discipline 'hard' (la neurofisiologia, la teoria dell'informazione, la scienza dei calcolatori).
In questa prospettiva Dennett reinterpreta l'universo mentale interno in termini intenzionali. Tale universo è qualcosa che si coglie e si spiega attribuendogli credenze, desideri, fini. Data la loro complessità queste funzioni per un verso non possono (almeno per ora) essere efficacemente ricondotte ad altro; per un altro verso, però, sono "ricche di significato" e "funzionano": nel senso che possiamo parlarne come se esistessero e agissero in quanto tali, consentendoci conoscenze e previsioni attendibili. Si prenda ad esempio una credenza. Dennett non nega che in linea di principio essa sia concepibile come il prodotto di una determinata attività neuronale. Ma tale interpretazione appare estremamente difficile e impraticabile sul piano pratico. Bisogna allora permettere e accettare - senza complessi - un "atteggiamento" che ci dica piuttosto il 'know how' che il 'know that' della credenza stessa, rappresentandocela in termini di ragioni, bisogni e scopi. Tale atteggiamento è chiamato appunto "intenzionale".
In realtà Dennet non rifugge dallo speculare sul modo in cui potremmo concepire concettualmente l'organizzazione del mentale. Impiegando un'immagine cui di solito è associato il nome di Marvin Minsky (cfr. "La società della mente", 1986), egli considera il mentale una "società" di funzioni-prestazioni particolari. Presa in sé e per sé, ogni singola funzione è "stupida" e inconscia. Inserita invece in un sistema complessivo, essa concorre a produrre qualcosa (il sistema stesso) che non è più "stupido" e inconscio, giacché compie atti che non sono più tali. Il primo merito di questa concezione consiste, per Dennett, nel risolvere quello ch'egli chiama "il problema di Hume": negare un ente "Mente" responsabile dei pensieri e delle credenze, senza per questo postulare funzioni mentali - dei veri e propri 'homunculi' come scrive Dennett - misteriosamente capaci di svolger esse ciò che non si vuole, giustamente, attribuire alla "Mente". Il secondo merito della concezione di cui sopra è, sempre secondo Dennett, di "gettare un ponte" tra l'universo degli atti mentali-intenzionali e il campo dei processi 'latu sensu' fisici che concorrono a costituire quegli stessi atti.
L'enfasi dennettiana sulla dimensione intenzionale del mentale è certamente importante, ma non può essere caricata di significati che assolutamente non ha. Dennett non solo è lontanissimo da qualsiasi riferimento alla fenomenologia husserliana, ma il suo proposito non è di valorizzare la specificità dell'intenzionale in quanto dimensione peculiare del mentale o dell'umano. Si potrebbe anzi dire che per lui non è tanto l'intenzionale a qualificare il mentale e l'umano quanto sono questi ultimi a rientrare in un dominio più vasto: quello, appunto, dei fenomeni intenzionali (o guardati intenzionalmente). Un sistema intenzionale, si legge nel capitolo cruciale di "Brainstorms", può essere indifferentemente un uomo, un alieno o una macchina (p. 46). Il solo requisito è che il loro comportamento possa essere previsto attribuendo ad essi credenze e desideri (p. 43). La tesi, come ben si intende, è assai impegnativa e "costosa". Essa potrebbe in qualche misura essere sostenibile da parte di chi, dinanzi a determinate classi di enti, cerca solo uniformità o analogie. Diventa invece una tesi insufficiente per chi, oltre alle analogie, intenda cogliere pure le (eventuali) differenze. Anche ammesso che una macchina possa essere concepita come un sistema intenzionale, resterebbe da domandarsi quali sono (se ci sono) i caratteri che fanno delle intenzioni mentali intenzioni non identiche a quelle delle macchine.
In verità, nonostante varie premesse e promesse, Dennett appare assai poco interessato ad approfondire tali caratteri. Appare anzi impegnato in una direzione per più versi opposta. In primo luogo, in una prospettiva dichiaratamente "antropomorfizzante" (p. 46), non esita ad attribuire tratti intenzional-mentalistici non solo agli animali ma anche, appunto, alle macchine: "Basta fare un 'piccolo passo avanti' [il corsivo è nostro] per chiamare le informazioni in possesso del calcolatore le sue credenze, i suoi scopi finali e intermedi i suoi desideri... Gli scopi di un calcolatore devono essere descritti intenzionalmente proprio come i desideri" (p. 43). In secondo luogo, in modo quasi simmetrico al precedente, le componenti di quel costrutto che usiamo chiamare l'universo mentale vengono spesso presentate in modo singolarmente 'machine like'. Qualche volta emerge anche la tendenza (tipica di un ben preciso riduzionismo nell'ambito delle scienze umane) a far coincidere la comprensione di determinate funzioni con la loro decomposizione/dissoluzione in "altro": "Se vogliamo un'analisi adeguata della creatività, dell'invenzione, dell'intelligenza, questa dev'essere analizzata e quindi scomposta in parti tali che in nessuna di esse vi sia intelligenza" (p. 162). Tale orientamento "dissolutore" investe anche la stessa coscienza e l'Io. Il timore che si voglia fare di essi degli enti metafisici porta Dennett ad assumere a loro riguardo una posizione non meno discutibile. La coscienza, fin particolare, viene concepita come una sorta di "scatola nera" del meccanismo-uomo; e in un importante colloquio con Jonathan Miller (cfr. J.M.,"States of Mind", 1983) viene definita un mero agente di pubbliche relazioni. Non è da escludere che in taluni contesti queste audaci metafore siano valide. Ma è altrettanto certo che in altri contesti (ad esempio quelli etici) occorrono ben altri modelli, non legati al dominio della teoria dell'informazione e dell'intelligenza artificiale privilegiato da Dennett.
Alla luce di tutto ciò, non sorprenderà che "Brainstorms" delinei un'immagine del sapere psicologico per più versi unilaterale. Il compito della psicologia, scrive Dennett, è di spiegare determinati fenomeni "in termini che alla fine dovranno in qualche modo saldare la teoria psicologica alla fisiologia" (p. 192). Certo "oggi non siamo ancora in grado di descrivere in termini meccanicistici" il sistema delle credenze ecc. (p. 124). Di qui la necessità dell'approccio intenzionale, le cui spiegazioni vengono nettamente distinte dalle "vere e proprie spiegazioni scientifiche" (p. 127). D'altra parte il progresso delle indagini ci farà approdare un giorno a una completa "analisi meccanica o fisiologica" del sistema di cui sopra.
Malgrado ogni cautela e ogni distinguo, l'"egemonia delle spiegazioni meccanicistiche rispetto a quelle intenzionali" (p. 372) è esplicitamente sottolineata. Anche la scelta di campo fisicalistica nell'ambito della filosofia della mente è netta: "io desidero mantenere il fisicalismo" (p. 73). Il prezzo pagato da Dennett per queste scelte teoriche (che sono le principali, anche se non le sole, compiute in "Brainstorms") è però assai alto. Si è già detto dell'interpretazione "debole" degli atti intenzionali. La loro riconduzione a mere organizzazioni di informazioni suggerita in vari luoghi del testo non è convincente. Nelle credenze e nei desideri di quei sistemi intenzionali che chiamiamo uomini noi tendiamo a cogliere qualcosa di più e di diverso che non mere elaborazioni informazionali: qualcosa che ha a che fare con una teoria del significato ben più complessa di quanto non appaia a Dennet e, ancor più, con una teoria della coscienza e del soggetto. Circa quest'ultimo punto, malgrado innegabili spunti e aperture, tale teoria non è mai persuasivamente delineata. Del resto lo stesso Dennett ha scritto di recente ("The Intentional Stance", 1987) di aver sì una concezione della coscienza ma ancora 'in progress'. Non ci resta, allora, che aspettare.
È anche per questa carenza che l'analisi dennettiana della vita mentale assume spesso un aspetto, per così dire, "fattualistico". Anche quando sono concepiti secondo l'atteggiamento intenzionale, credenze, desideri ecc. appaiono soprattutto operazioni, fatti tendenzialmente oggettivi, governati da regole standard. E se non fosse (soltanto) così? Se credenze e desideri fossero (anche) esperienze? Esperienze rinvianti anzitutto a investimenti simbolici, a sovradeterminazioni semantiche, a quadri di riferimento biografico-contestuali - il tutto miscelato secondo modi e forme soggettivi propri del "titolare" di quelle credenze e desideri?
Tra "la" credenza e la 'mia' credenza c'è una sorta di spazio teorico che occorre riempire. Gli accenni di Dennett alla dimensione della "privatezza" e del "personale" sono talvolta suggestivi ma insufficienti. Le recenti indagini sulla nozione di "punto di vista soggettivo" e sul rapporto soggetto-contesto (un rapporto "interessato", valutante, per il quale occorre impiegare strumenti interpretativi più sottili di quelli neocognitivistici cari a Dennett) mettono in più sensi in crisi gli approcci all'universo mentale prevalenti, anche se non in esclusiva, in "Brainstorms".
Queste osservazioni non intendono in alcun modo diminuire il rilievo complessivo di "Brainstorms". L'opera è ricca di osservazioni e di ipotesi estremamente stimolanti che ragioni di spazio (e anche, talvolta, di tecnicità concettuale) impediscono di lumeggiare in questa sede. Sotto questo profilo il titolo stesso dell'opera appare singolarmente felice. Privo di un adeguato correlato in italiano, 'brainstorm' significa qualcosa come "temporale mentale", sommovimento/innovazione intellettuale prodotto da audaci cortocircuiti tra idee. E indubbiamente dal 'brainstorming' scatenato da Dennett nel cielo delle nostre certezze filosofico-psicologiche si esce forse un po' provati, ma anche molto arricchiti.

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